Ernesto Ferrero racconta Cristina Lastrego

Conosco Cristina Lastrego sin dalla metà degli anni ’70, cioè da quando un giorno lei, architetta,  e Francesco Testa, filosofo, coppia di ferro nella vita e nel lavoro, si presentarono timidamente e rispettosamente in Via Biancamano 1,  a Torino, dove aveva sede la Einaudi, con una grossa cartella di quello che sarebbe poi diventato il loro primo libro, La Giovanna a fumetti. Che un editore “impegnato”e ideologicamente corrusco come Einaudi pubblicasse un libro con fumetti non era una faccenda così semplice e scontata, e molto contò l’avallo di un mitico e molto rimpianto redattore-capo, Daniele Ponchiroli. Per fortuna la piccola Giovanna, paffuta e un po’ mascolina, vestita di una semplice salopette di jeans, sorridente senza smancerie e bamboleggiamenti, era un’anti-Barbie, dunque politicamente corretta: più semplicemente, una bambina normale con buona attitudine all’immaginazione (e alla lettura). Da allora ho seguito dall’osservatorio privilegiato dell’amicizia il lavoro di Lastrego & Testa, le decine di libri testati nelle scuole prima della pubblicazione e poi tradotti in tutto il mondo con le avventure di Giovanna, di Tommasone, drago buono e obeso, e del bastardino Ciccio. Ho assistito il loro passaggio alle nuove tecnologie digitali e finalmente l’approdo ai cartoni animati, in produzioni sempre più impegnative. Nel frattempo Cristina e Francesco sono diventati anche dei vicini di casa. Dunque credo di conoscerli, ma è stata una sorpresa anche per me scoprire le metamorfosi notturne di Cristina che, terminato il lavoro professionale, ritaglia per sé qualche ora prima del sonno. Ritagliare è la parola giusta, perché ha scoperto le gioie del collage, e vi è abbandonata con Dapprima sono stati grossi animali fiabeschi, un po’dinosauri, un po’ coccodrilli e un po’ pesci di profondità, assemblati con tessuti d’ogni genere e tramatura: velluti, ricami, trine, merletti, passamanerie, fettucce, bottoni, nastri, fili che sembrano usciti da vecchi bauli dimenticati chissà dove.
È seguita una serie di gatti stralunati, elettrici e sogghignanti; di draghi fiammeggianti e di creature marine grassocce, sornione e piuttosto compiaciute delle loro sgargianti livree; di uccelli attoniti dai grandi occhi e dai becchi imperiosi. Poi Cristina ha allestito, calvinianamente, i ritratti di ipotetici antenati: guerrieri, condottieri, dame frivole, ballerine, filosofi, giudici, persino una “schiava per amore”, un “ammaestratore di moscerini” e un navarrese, cioè un abitante della Navarra. Ognuno portatore di stupefacenti autobiografie, per cui i collages sono anche dei racconti miniaturizzati, in cui fiaba e storia si incrociano in una cifra grottesca, insieme sofisticata e naïve, araldica e circense.
Tutte queste creature della notte compongono una fauna rutilante, dalle striature orientaleggianti, come uscita dalle Mille e una notte, saporita come la più fantasiosa pasticceria siciliana. Hanno i colori sapienti d’antiche ceramiche persiane, sembrano prossime a trasmutare la propria natura animale in vegetale e viceversa. Assistiamo così  a una nuova creazione governata da un demiurgo che si diverte a scomporre e ricomporre forme note in creature mirabolanti dallo status indefinibile, ma favorevole ai portenti e alle magie.

Materiali dismessi e destinati all’oblio, quando non alla discarica,  ritrovano una miracolosa giovinezza, ostentano la loro antica nobiltà, si mescolano e ibridano con una sorta di allegra voluttà, di intimo divertimento, all’insegna di una fastosità decorativa. Ne nascono figure intensamente metamorfiche, sorprese nel divenire della loro grana segreta: caldamente materiche e insieme stilizzate, geometriche, come accade nell’arte primitiva, che insegue un suo ordine interno proprio quando si abbandona ai piaceri della fisicità, quando estrae lo spirito creatore dalla compattezza della pietra o del legno. Non a caso questi collages si sono rivelati perfetti per illustrare, o meglio integrare, la filastrocca con cui Carlo Fruttero ha raccontato a suo modo la Genesi, “sotto l’Alto Patrocinio dell’Onnipotente”  (La Creazione, Gallucci, 2010).
Poi Cristina è andata oltre, si è misurata con la tridimensionalità, ha dato volume ai suoi assemblaggi. Mentre le sue creature notturne prendevano a occupare sempre più fittamente le pareti di casa, ha scoperto i materiali della tecnologia di cui facciamo un inconsapevole uso quotidiano:  fatalmente sottoposti a rapida obsolescenza, esposti come sono all’incalzare di nuovi prodotti sempre più sofisticati.
Possiamo così scoprire con meravigliata sorpresa quali capacità espressive si nascondano nelle discariche dell’età digitale: cd, mouse, gusci di telefoni cellulari, prese SCART  e USB, porte SCASI, cuffie, interruttori, auricolari, spinotti, schede audio, circuiti stampati, reostati, processori, connettori, jack, alimentatori, tastiere, floppy, sintonizzatori, bobine, ventole di raffreddamento, testine di rasoio, telecomandi, involucri d’orologio, relé, faretti, navigatori satellitari, pezzi di lampade e di ferri da stiro, addirittura imponenti carrozzerie di stampanti.
Un bric-à-brac di metallo e di plastica che –ulteriore sorpresa- si sposa mirabilmente con il vecchio repertorio dei pizzi e dei ricami, delle fettucce e dei bottoni: come nel fantasy, dove Medioevo e fantascienza sembrano fatti l’uno per l’altro, come ha intuito il geniale Steven Spielberg.  
Il futuro viene così risucchiato, riciclato dalla tradizione, reinventato in nuove combinazioni. Materiali presunti “freddi”, addirittura inerti o insignificanti, sono chiamati a disvelare le diverse gradazioni delle psicologie umane e animali. Attraverso una sapiente arte combinatoria, cui presiedono divertite le ombre magnanime di Enrico Baj e Lele Luzzati, raccontano autobiografie francamente imprevedibili, spesso esilaranti, talvolta inquietanti: una giovanile Nonna Informatica con colletto di pizzo “filet” e i grossi occhi rotondi dei cd, uno Scienziato Pazzo dallo sguardo debitamente allucinato, la Cantante Calva (omaggio a Ionesco), il Ragioniere Libidinoso e voyeur, una Domina Computer sado-maso, ballerine senza gambe, kamikaze, ragazze tagliate in due e messe nel freezer, l’intero equipaggio di un sottomarino russo, ivi compresa l’amante del capitano. Ma anche personaggi storici: Cleopatra, Garibaldi, un Bach la cui fluente capigliatura barocca è assicurata da opportuni merletti, con relativa consorte; il Re Macellaio, cioè il sanguigno Vittorio Emanuele II scambiato nella culla con il figlio di un beccaio, come vuole la leggenda annotata dallo stesso Massimo D’Azeglio; il regista Almodovar, un po’ smagrito dalle sue stesse ossessioni.

Non potevano mancare, a questo punto, i totem tecnologici, in cui antichi idoli assumono le divise metalliche della tecnologia più avanzata. Composizioni insieme ieratiche e autoironiche, minacciose e domestiche, che sono a loro modo anche dei contes philosophiques: ci  invitano a riflettere sul nostro rapporto con un armamentario che da utile servitore tende a impossessarsi dell’anima dei costruttori-padroni. E soprattutto sulle nostre presunzioni di apprendisti stregoni, sempre sul punto di lasciarsi scappare di mano la situazione.  
Da ultimo, Cristina mi sembra passata da pezzi singoli a composizioni complesse, di più grande formato: senza dismettere il gusto del racconto, che per sua natura è sempre fulminante, ha voluto affrontare le strutture organizzate del romanzo, per così dire, come le consente la raggiunta padronanza dei registri espressivi. Penso alla serie del circo, virata principalmente sul rosso, addirittura fastosa nel suo elaborato decorativismo, con abbondanza di giocolieri ed animali esotici, in cui il meraviglioso si frammenta in una serie di dettagli inventati e rifiniti con la cura maniacale dei miniaturisti. Un “pieno” che satura gli spazi, ma si lascia agevolmente scomporre, al tempo stesso sostanzioso e leggero, aereo e materico.  
Non so francamente dove i suoi viaggi notturni porteranno Cristina, quali altri materiali di scarto scoprirà e assemblerà per il nostro incantamento (tra le sue più recenti creazioni c’è anche una serie di caffettiere prelevate da vecchi depositi casalinghi e sapientemente antropomorfizzate).

Quel che mi sembra ammirevole ed esemplare, anche e soprattutto per chi non abbia capacità artistiche, è proprio questa ricerca quasi baldanzosa di nuovi linguaggi partendo dal quotidiano più umile e dimesso, quello che abbiamo sotto le mani e sotto gli occhi. Come a dire: il fantastico, il meraviglioso non abitano mondi lontani e preziosi. Il problema, come sempre, sta nell’occhio dell’artista,  nella sua capacità di cogliere quello che agli altri sfugge, di liberare la materia – quale che sia- dalle convenzioni e dagli usi che la mortificano. La freschezza poetica dello sguardo di Cristina, l’inesauribile inventiva delle sue magie combinatorie sono un dono che parla ai bambini d’ogni età.

Ernesto Ferrero

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